“La vita è un susseguirsi di perdite, dalla nascita alla morte”.
Non è un inizio confortante, senza dubbio, ma rappresenta una indiscutibile verità per molto aspetti della vita. Inizia così il trattato della prof.ssa Giovanna Meloni, medico ematologo che cambiando vita ha affrontato il dolore dei pazienti da un diverso punto di vista, quello psicologico e della loro relazione con il medico.

Abbiamo incontrato la prof.ssa Meloni nel corso di una sua visita al Centro Dati GIMEMA, il cuore operativo della Fondazione, e ne abbiamo approfittato per capire la genesi del lavoro che ha accettato di divulgare liberamente.

Prof.ssa Giovanna Meloni

Buongiorno Professoressa e grazie per aver condiviso con noi il suo lavoro. Conoscendola da diversi anni mi è noto il successo della sua vita professionale come medico quindi mi chiedo come e perché nasca questo lavoro che affronta il tema della malattia da un punto di vista diverso dalla clinica, da quale esigenza?

La risposta può essere molto semplice: proprio perché sono un medico che è si è occupato per tantissimi anni di pazienti ematoncologici e che ha sempre dato grande importanza agli aspetti emozionali che le persone colpite da gravi malattie dovevano affrontare, arrivata alla pensione, ho voluto coronare un mio vecchio sogno chiuso in un cassetto: avere un percorso formativo in psicoterapia per sentirmi professionalmente più completa e rivisitare – alla luce di quanto imparato in questi anni di specializzazione – gli aspetti emozionali che avevo affrontato nei miei rapporti con i pazienti.
Ho lavorato con studenti, specializzandi e giovani ematologi, comunicando loro l’importanza di considerare il paziente come persona e il mio elaborato nasce soprattutto come messaggio per loro, per condividere la mia esperienza, il mio vissuto: “curare e prendersi cura”.
La burocratizzazione della medicina occupa sempre di più il tempo lavorativo dei medici, che sono quindi oberati da pratiche d’ufficio che sottraggono tempo alle relazioni con i pazienti, limitando le comunicazioni ai soli dati riguardanti la malattia nella sua fisicità.

 

Nel trattato lei parla del complesso rapporto che si instaura tra medico e paziente. Come descriverebbe l’evoluzione, se di evoluzione si tratta, del suo personale rapporto con i pazienti?

Fin dall’inizio della mia attività ho riconosciuto l’importanza dell’instaurarsi di un rapporto empatico con i pazienti e con i loro famigliari; soprattutto all’inizio non è stato facile e ho sentito la mancanza di una educazione formativa in tal senso, l’esperienza mi ha e in seguito sempre più aiutata, ma mi sarebbe piaciuto poter usufruire di competenze più validate; mi sono iscritta ad un corso specifico di specializzazione ma all’epoca ho dovuto rinunciare per mancanza di tempo, come già detto era un mio sogno nel cassetto. Fortunatamente nell’Istituto era nel frattempo nato un gruppo per il sostegno psicologico ai nostri pazienti, ma io ho sempre sentito il desiderio di approfondire le mie personali conoscenze, sempre più convinta che un medico – nel curare un paziente colpito da una malattia potenzialmente mortale – debba aiutarlo ad affrontare non solo la sua patologia fisica ma anche il suo equilibrio psichico. È di importanza fondamentale occuparsi del paziente come persona, come individuo singolo nella sua dualità mente-corpo.

 

Emerge con forza nelle sue parole l’esigenza di offrire una maggiore attenzione al paziente e al suo intero vissuto, alla persona in toto. Immagino però che questo non sia semplice da fare in un contesto di grave malattia o di emergenza. Cosa si potrebbe fare per valorizzare questo aspetto?

Per cercare di migliorare il rapporto con i pazienti, i medici dovrebbero avere un percorso formativo fin dai tempi dell’università e poi della specializzazione, che insegni a curare e a prendersi cura anche degli aspetti emozionali che coinvolgono sia il malato che loro stessi.

 

Ho trovato anche molto interessante il capitolo in cui si parla dei medici che, in quanto persone esposte a continuo stress, possono andare incontro ad un esaurimento psicofisico: il burn-out. È un fenomeno frequente? Come evitarlo?

Negli ultimi anni il burn-out è aumentato notevolmente, proprio a causa del logorante lavoro d’ufficio cui i medici sono sottoposti, lavoro che si va chiaramente ad aggiungere allo stress emotivo al quale è continuamente esposto il personale sanitario che si occupa di pazienti con malattie gravi e che non è preparato confrontarsi con la malattia, con le proprie emozioni e con quelle del malato.

 

Come pensa sia possibile migliorare il rapporto medico-paziente oggi?

Un percorso formativo in ambito psicoterapeutico è – secondo me – di importanza fondamentale per uno studente di medicina e per un medico, oltre a saper curare una malattia bisogna sapersi prendere cura della persona, dei suoi bisogni, delle sue necessità, non sottovalutando e trascurando la sua qualità di vita.