Sempre maggiori evidenze mostrano che la composizione del microbiota intestinale può avere un ruolo importante nel contrastare o nel favorire le complicanze del trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (CSE). Un intervento che spesso rappresenta l’unica possibilità di cura per molti tumori del sangue. Abbiamo chiesto alla dott.ssa Raffaella Greco, ematologa presso l’unità di Trapianto di Midollo Osseo dell’ospedale San Raffaele di Milano, diretta da Fabio Ciceri, un aggiornamento sui recenti risultati degli studi clinici che riguardano questo ambito.

“Partiamo dalla definizione di microbiota o microbioma. Questi due termini, spesso utilizzati come sinonimi, non sono in realtà completamente sovrapponibili. Il microbiota – chiarisce Greco – rappresenta la comunità di microrganismi che vivono in simbiosi all’interno del nostro tratto gastroenterico; con microbioma intendiamo invece il patrimonio genetico da loro posseduto”. Un recente studio condotto da Raffaella Greco e colleghi mostra come la variazione del microbiota intestinale influenzi in modo significativo lo sviluppo di una specifica e temibile reazione immunitaria post-trapianto, denominata malattia del trapianto contro l’ospite o graft versus host disease (GVHD).

“Per il paziente ematologico sottoposto a trapianto allogenico di CSE – spiega la dottoressa – l’intestino rappresenta un punto cruciale per la modulazione del sistema immunitario e per l’immunoricostituzione post trapianto, fondamentale a sua volta per una buona risposta al trattamento. Inoltre, il microbiota ha un ruolo importante nella protezione verso le infezioni, che frequentemente si presentano nei pazienti trapiantati. Possiamo quindi ritenerlo un fattore cruciale per il determinarsi di molte delle complicanze che spesso si presentano in questi soggetti”.

Purtroppo il microbiota intestinale, in molti pazienti, può essere alterato sin dalle fasi precedenti al trapianto; di conseguenza crescono le probabilità che le complicanze si verifichino. “In un altro studio condotto sempre al San Raffaele assieme a Massimo Clementi e Nicasio Mancini del laboratorio di Microbiologia – racconta Greco – abbiamo analizzato nel tempo la composizione del microbiota intestinale dei pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali. In una buona percentuale di essi abbiamo riscontrato una compromissione del microbiota già nella fase pre- trapianto. Questo dato è particolarmente significativo nel caso di pazienti affetti da leucemia acuta, i quali vengono generalmente sottoposti a chemioterapie nelle fasi precedenti al trapianto di CSE.

Le alterazioni hanno caratteristiche specifiche: un aumento batterico della famiglia delle enterobacteriaceae e una diminuzione della famiglia protettiva delle lachnospiraceae. Queste modifiche rappresentano dei potenziali marcatori in grado di predire un maggiore rischio di complicanze, infettive e non, dopo il trapianto”.

Un altro dato rilevante che emerge da questo studio è la presenza di una correlazione tra una determinata composizione del microbiota e la GVHD acuta a carico di organi specifici. Gli studiosi mostrano che una relativa predominanza del gruppo delle staphylococcaceae è associata a una GVHD acuta a carico del fegato, mentre la predominanza sia di staphylococcaceae che di enterococcaceae si associa a forme di GVHD intestinale. Un impoverimento del microbiota intestinale, e in particolare la riduzione delle specie protettive quali ad esempio le lachnospiraceae, è correlata invece con lo sviluppo di forme severe di GVHD acuta.

Evidenze di questo tipo sono molto utili per la pratica clinica nel prossimo futuro. Il test di valutazione del microbioma permetterebbe al clinico di modulare al meglio le terapie disponibili per questi pazienti e monitorarne le possibili conseguenze. Al momento, però, queste valutazioni sono ancora in fase sperimentale.

Se da un lato la valutazione del microbiota/microbioma è uno strumento preventivo e predittivo, dall’altro i clinici stanno mostrando sempre più interesse e fiducia nei confronti di una procedura innovativa volta ad eliminare i microrganismi patogeni dall’intestino, ristabilendo una comunità microbica sana: il trapianto del microbiota fecale. “L’obiettivo di questo intervento è portare il paziente da uno stato di disbiosi, ossia di squilibrio e alterazione, a quello fisiologico di simbiosi, ripristinando la corretta eterogeneità e ricchezza batterica dell’intestino, prestando sempre attenzione anche alla dieta del paziente. Negli ultimi anni c’è stato un crescente interesse nei confronti di questa procedura come trattamento per una serie di condizioni, comprese le infezioni intestinali ricorrenti causate dal batterio clostridium difficile.

Il trapianto di microbiota fecale è in sperimentazione anche nei pazienti onco-ematologici affetti da GVHD acuta che non rispondono più alle terapie standard. Seppur variabili tra i diversi studi, i risultati clinici sono promettenti ed evidenziano un beneficio per i pazienti sottoposti a questa procedura. Altre sperimentazioni sono in corso anche per la prevenzione delle infezioni in pazienti colonizzati da germi multiresistenti”.

Sebbene ancora in fase sperimentale, tutti questi risultati si stanno rivelando molto promettenti e rappresentano una risorsa fondamentale per i sanitari. L’obiettivo è identificare precocemente i campanelli d’allarme e personalizzare quanto più possibile le strategie terapeutiche.