Un nuovo studio chiarisce meglio gli effetti biologici dell’interferone-α (IFNα) sul sistema immunitario per favorire la sospensione del trattamento con i TKI nei pazienti con leucemia mieloide cronica. Sono però ancora molti gli interrogativi sull’efficacia e la tossicità di questo approccio.
Negli ultimi anni, la terapia con gli inibitori delle tirosin-chinasi (tyrosine kinase inhibitor, TKI) ha permesso a gran parte dei pazienti con leucemia mieloide cronica in fase cronica di avere un’aspettativa di vita normale. L’interruzione della loro assunzione rappresenta il passo successivo perché, oltre alla sopravvivenza, migliora anche la qualità di vita. “Ai vantaggi fisiologici e psichici della riduzione degli effetti collaterali dei TKI e del senso di ‘liberazione’ dalla cura, se ne aggiungono altri economici con una riduzione o diluizione nel tempo dei costi per le cure e i controlli”, commenta Giuseppe Saglio, direttore della Divisione di medicina interna a indirizzo ematologico dell’Università di Torino. Tuttavia perché sia sicuro interrompere il trattamento, la malattia deve avere particolari caratteristiche, che presenta solo il 40-50% dei pazienti con questo tipo di tumore. La comunità scientifica sta quindi studiando diverse strategie per allargare il bacino delle persone idonee all’interruzione della terapia, mantenendone stabile nel tempo l’effetto molecolare. Tra le varie ipotesi, è emersa l’opzione dell’interferone-α (IFNα), il cui effetto immunomodulante è stato di recente analizzato, per la prima volta in modo approfondito, da un gruppo di ricercatori dell’Università di Adelaide in Australia.
L’IFNα è una citochina che regola la risposta del sistema immunitario contro gli agenti virali, mediando l’attivazione di diversi geni coinvolti nella risposta del sistema immunitario adattativo, nella sintesi delle proteine, nell’apoptosi e in altri processi. Se prima dell’introduzione dei TKI, l’interferone era la terapia di prima scelta per la leucemia mieloide cronica, negli ultimi dieci anni è diventato di nuovo oggetto di studio come farmaco addizionale.
L’ipotesi è che la combinazione di IFNα e TKI possa servire ad aumentare la percentuale di pazienti idonei all’interruzione della cura o a prolungarne l’effetto.
Sono di particolare interesse, le formulazioni cosiddette PEGilate dell’IFNα, dove la citochina è legata alla catena del glicole polietilenico, che conferisce al farmaco un effetto prolungato nel tempo. In questo modo può essere assunto più raramente, senza che ne venga alterata l’efficacia e la tollerabilità. “Ne è un esempio il ropeg-IFNa che può essere assunto ogni 15 giorni, e ha un effetto prolungato, in modo particolare nelle cellule tumorali”, spiega Giuseppe Saglio.
Diversi trial clinici hanno comparato l’effetto della combinazione di IFNα PEGilato e TKI con quello del solo TKI in pazienti con leucemia mieloide cronica, ma i risultati sono altalenanti. In Germania lo studio clinico Endure trial ha somministrato il ropeg-IFNa dopo aver sospeso la cura con TKI. Rispetto ai pazienti che non l’avevano assunto, non è emerso alcun miglioramento, in termini di risposta maggiore molecolare (major molecular response, MMR). Nel “Petals trial”, la combinazione del nilotinib, un farmaco TKI, con l’IFNα ha portato ad un incremento della risposta molecolare profonda (deep molecular response, DMR), ma non della sopravvivenza dopo la sospensione del trattamento. Invece, nel “DASA-peg study”, l’aggiunta del peg-IFNα al dasatinib ha incrementato del 32% il numero di pazienti con almeno uno dei due requisiti richiesti per l’interruzione della terapia.
“I risultati ottenuti finora sulla combinazione di l’IFNα e TKI non sono rivoluzionari”, afferma Giuseppe Saglio. A questa incertezza, si aggiunge il fatto che non è ancora chiaro il modo in cui IFNα agisce sul sistema immunitario.
Un passo avanti in questa direzione è stato fatto dal gruppo di ricerca di Yazad D. Irani della Scuola di medicina dell’Università di Adelaide nel Sud dell’Australia. In un recente studio pubblicato sul British Journal of Haematology, i ricercatori hanno svolto una dettagliata analisi longitudinale dell’effetto dell’interferone sul sistema immunitario, paragonando la combinazione del TKI nilotinib più IFNα al solo trattamento con nilotinib, in circa 30 pazienti con leucemia mieloide cronica in fase cronica. La combinazione ha determinato una crescita dei recettori attivanti le cellule NK e dei linfociti T citotossici contro gli antigeni associati alle cellule leucemiche. Si è quindi verificata una risposta variabile nel tempo che potrebbe portare a un precoce raggiungimento della risposta molecolare profonda.
“I risultati di questo studio dimostrano che la somministrazione dell’IFNα può influenzare la risposta immunitaria e aiutano a capire meglio il ruolo di specifiche popolazioni cellulari, come le cellule NK”. Giuseppe Saglio, però, sottolinea che si tratta di uno studio biologico, non clinico. Si devono sciogliere ancora molti interrogativi sugli effetti dell’IFNα a lungo termine, sui meccanismi con cui agisce, sugli effetti collaterali e sui dosaggi, prima che venga introdotto nella pratica clinica.
“Bisogna considerare che per la leucemia mieloide cronica esiste già una cura efficace, quella dei TKI. Con l’interruzione della terapia, si vuole fare un passo in più per migliorare la qualità della vita dei pazienti”, afferma Saglio. “Mentre per altri tipi di neoplasie non esistono terapie specifiche e si è disposti a tollerare tossicità più alte dei farmaci, in questo caso non si può chiedere alle persone un sacrificio eccessivo”. Perché ci si avvicini al difficile obiettivo di sviluppare questi trattamenti è quindi necessario agire su più fronti: da un lato, approfondire lo studio dei meccanismi biologici alla base della stessa interruzione della terapia, dall’altro analizzare differenti approcci per indurla nei pazienti. Come commenta Giuseppe Saglio: “Oltre all’ IFNα, oggi sono in corso di studio numerose strategie che cercano sia di controllare il sistema immunitario sia di raggiungere remissioni molecolari sempre più profonde”.
È possibile leggere lo studio di Irani et al. a questo link, e il commento di Giuseppe Saglio e Massimo Breccia qui.