Un successo della ricerca in un studio pubblicato sul New England Journal of Medicine (NEJM): la prima terapia approvata per l’amiloidosi a catene leggere.
Ne parliamo con Giovanni Palladini, membro del working party GIMEMA dedicato alle malattie rare, tra gli autori dello studio.

È un momento molto positivo per i pazienti affetti da amiloidosi a catene leggere (amiloidosi AL) perché il lungo impegno nella ricerca si è trasformato in risultati clinici immediatamente apprezzabili. In un recente articolo apparso su NEJM, un gruppo di ricercatori internazionali ha pubblicato i risultati dello studio clinico in cui è stato utilizzato il daratumumab, un anticorpo monoclonale diretto contro CD38, in aggiunta alla terapia usuale (bortezomib, ciclofosfamide e desametasone). I risultati sono molto buoni, con un deciso incremento della risposta ematologica completa e un veloce miglioramento degli organi tipicamente colpiti da questa malattia.

Tra i più grandi esperti di amiloidosi AL c’è Giovanni Paladini, professore all’università degli studi di Pavia e direttore del Centro per lo studio e la cura delle amiloidosi sistemiche della Fondazione IRCSS Policlinico San Matteo. Con lui abbiamo parlato dell’impatto di questi risultati scientifici e delle prospettive di ricerca futura.

Professor Palladini, innanzitutto i complimenti per la pubblicazione sulla più prestigiosa rivista medica ma soprattutto per questo grande risultato, che ha dei risvolti molto pratici per il paziente.

Grazie tante. Certo, una pubblicazione di grande rilievo è l’obiettivo di un ricercatore ma in questo caso, davvero senza retorica, è anche l’obiettivo dei medici e dei pazienti che hanno a che fare con questa malattia rara.

Questo lavoro ha portato a ottenere qualche settimana fa l’indicazione per il farmaco dalle agenzie regolatorie internazionali, sia la statunitense FDA che l’europea EMA, e questa è la prima volta che succede per l’amiloidosi a catene leggere.

È stata una bella spallata agli ostacoli che i pazienti con una malattia rara incontrano in continuazione, adesso abbiamo un farmaco in indicazione e siamo molto contenti.

Nello studio di fase III che avete portato a termine qualche mese fa, uno dei punti più sensibili è stato quello dell’arruolamento dei pazienti. In questo caso quanto tempo avete impiegato?

Lo studio abbiamo cominciato a disegnarlo tre o quattro anni fa. L’arruolamento è stato veramente veloce, i pazienti sono stati arruolati in meno di due anni perché questa volta avevamo dietro la potenza di fuoco di un’azienda farmaceutica. La scorsa volta lo studio aveva solo 17 centri mentre qui non c’è stato limite e tutti i centri di livello sono stati inclusi, senza poi trascurare che il lavoro non medico lo faceva l’organizzazione di una grande azienda come Janssen. Questo ci ha facilitato molto, ma io mi lusingo di credere che avere rotto il ghiaccio un anno fa, e averci lavorato per anni, abbia dato qualche aiuto.

Il farmaco chiave di questo studio è il daratumumab, ci spiega questa scelta?

Il daratumumab è un anticorpo monoclonale che attacca direttamente le plasmacellule, riconoscendo l’antigene CD38 che si trova sulla loro superficie. Questo lo rende un farmaco molto selettivo. È già usato nel mieloma multiplo in cui le cellule della neoplasia sono sempre plasmacellule. Nell’amiloidosi AL il tumore, se vogliamo, è molto più piccolo rispetto alla sua versione maligna ma direi più letale, perché produce questa catena leggera, un frammento di anticorpo, che è terribilmente tossico per gli organi dei nostri pazienti.

Quindi uccidere le plasmacellule, e questo anticorpo lo fa molto in fretta, ci permette di abbassare rapidissimamente la produzione della sostanza tossica e vedere un rapido miglioramento della funzione degli organi coinvolti dalla malattia.

Analizzando i dati sugli effetti collaterali sembra che il rapporto rischio-beneficio sia molto favorevole.

Sì, è senza dubbio un rapporto favorevole. I dati indicano chiaramente che la tossicità è ragionevole e gestibile. Ricordiamoci poi che nella sperimentazione clinica il farmaco è stato aggiunto alla terapia standard quindi ci saremmo aspettati qualche cosa in più, ma questo non è avvenuto. L’effetto collaterale più importante sono state le infezioni polmonari. Certamente è una terapia che espone un po’ di più alle infezioni, proprio per il fatto che facciamo una chemioterapia immunosoppressiva e inoltre diamo un anticorpo che uccide le plasmacellule, ma veramente tutto rimane entro i limiti di eventi decisamente gestibili.

Per quale fase di malattia è stato indirizzato questo studio?

Questa terapia è registrata alla diagnosi. Quindi i pazienti di prima diagnosi di amiloidosi a catene leggere, che non hanno fatto altre terapie, sono trattati col farmaco daratumumab in associazione a ciclofosfamide, bortezomib e desametasone.

Abbiamo assistito recentemente alla grande evoluzione della terapia nella leucemia linfoblastica acuta in cui si è riusciti ad utilizzare solo l’anticorpo monoclonale, eliminando la chemioterapia. Secondo lei esiste anche in questo contesto questa possibilità?

Questa è la domanda che tutti ci stiamo facendo, naturalmente. Credo di sì, è una strada da esplorare ed esiste un largo consenso tra gli esperti di amiloidosi. Penso quindi che ci muoveremo in questo senso rapidamente. Ci sono comunque ancora tanti argomenti da esplorare perché per noi questa è proprio la prima volta che abbiamo l’indicazione di un farmaco in una fase di malattia.

Quali i progetti per il futuro?

Con successivi studi bisognerà innanzitutto vedere cosa fare nelle altre fasi di malattia, nei pazienti che hanno una ricaduta o nei pochi pazienti in cui questa terapia non dà una risposta soddisfacente. Ci stiamo già lavorando.