Un nuovo studio ha mostrato che in Italia si preferisce utilizzare l’imatinib, inibitore della tirosin-chinasi di prima generazione, nella terapia di prima linea della leucemia mieloide cronica in fase cronica per pazienti più anziani e con comorbidità.

In ambito medico si parla di “imbarazzo della scelta” quando esistono molteplici alternative terapeutiche. È questo il caso della leucemia mieloide cronica (CML), per cui “al momento sono disponibili sei inibitori della tirosin-chinasi (TKI) del gene ABL1 con diversi profili di efficacia, tolleranza e tossicità”, spiega Mario Tiribelli, ricercatore all’Università degli studi di Udine: “Bisogna quindi trovare il modo di prescrivere a ogni paziente il farmaco più idoneo in un determinato momento clinico.”

I TKI sono farmaci che si legano alle proteine tirosin-chinasi e inibiscono quei meccanismi che fanno proliferare le cellule. Una eccessiva attività delle proteine tirosin-chinasi induce le cellule a crescere fuori controllo e porta allo sviluppo del tumore. Per comprendere come sono utilizzate queste terapie in Italia, con il suo gruppo di ricerca, Tiribelli ha condotto uno studio, pubblicato di recente sulla rivista Cancer: “Ci siamo focalizzati sulla terapia di prima linea della CML in fase cronica, condizione in cui si ritrova oltre il 95% dei pazienti con questo tipo di tumore alla diagnosi”. Oggi in Italia, per la leucemia mieloide cronica, sono approvati tre farmaci, inibitori della tirosin-chinasi: l’imatinib, il nilotinib e il dasatinib. Attualmente non esistono linee guida che indichino quale terapia sia più adatta e a quali pazienti, quindi i medici devono effettuare delle scelte.

“Il nostro obiettivo è stato proprio identificare i criteri che portano i clinici a preferire un farmaco rispetto all’altro”, afferma Mario Tiribelli.

Il gruppo di ricerca ha così analizzato il percorso di cura di quasi 2000 pazienti con CML in fase cronica diagnosticata tra il 2012 e il 2019 in 36 centri ematologici in tutto il territorio nazionale. Circa il 55% dei pazienti è stato trattato con imatinib, mentre il restante con dasatinib o nilotinib, gli inibitori della tirosin-chinasi di seconda generazione. Ha ricevuto l’imatinib quasi il 77% dei soggetti con più di 65 anni e la maggior parte di coloro che avevano altre patologie e assumevano altri farmaci.

“In particolare, l’utilizzo di dasatinib e nilotinib è stato molto limitato nei pazienti più anziani e con una storia clinica caratterizzata da patologie quali ipertensione arteriosa, diabete mellito o malattie pregresse, come neoplasie, pneumopatie severe o ischemie cardiache e cerebrali” continua il ricercatore. “Lo stesso è accaduto per i soggetti che assumevano più di tre farmaci alla diagnosi di CML”.

I ricercatori hanno ipotizzato che la scelta terapeutica dei clinici dipendesse dalla combinazione di diversi fattori, quali l’esperienza personale, le storie cliniche dei pazienti e le caratteristiche stesse dei farmaci.

Per esempio, a parità di efficacia in termini di sopravvivenza globale a lungo termine, i medici potrebbero aver preferito prescrivere ai pazienti giovani gli inibitori della tirosin-chinasi di seconda generazione che determinano una risposta molecolare più rapida e profonda rispetto all’imatinib. Invece, un maggior impiego di imatinib potrebbe essere legato anche all’introduzione nel mercato, nel 2018, della sua formula generica, che ha le stesse proprietà terapeutiche ma è più economica.

A questo punto diventa cruciale comprendere quale sia l’efficacia e la tollerabilità dei tre trattamenti in specifici gruppi di pazienti.

“Il nostro lavoro non termina con questo studio”, chiarisce Mario Tiribelli. Il Registro italiano LMC, che ha fornito i dati per l’indagine, continua a raccogliere informazioni sul maggior numero possibile di casi diagnosticati in Italia. Inoltre, il progetto Campus CML sta portando avanti numerosi studi prospettici di ricerca.

“Tra i vari studi in corso, alcuni cercano di analizzare l’efficacia e la sicurezza dei diversi inibitori di tirosin-chinasi, altri indagano la possibilità di ridurre le dosi dei farmaci nei pazienti, la cui risposta molecolare al trattamento è maggiore”, conclude il ricercatore.