Rilevare precocemente la presenza di specifici monociti potrebbe migliorare i trattamenti nei pazienti con linfoma a grandi cellule B recidivato refrattario e massimizzare il rapporto costo-efficacia nella terapia con cellule CAR-T.

L’infusione di cellule CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T cell) nei pazienti affetti da linfoma a grandi cellule B recidivato refrattario è un’opzione di trattamento da valutare laddove siano fallite precedenti linee di terapia. Queste cellule ingegnerizzate possono indurre remissioni durature, ma i tassi di risposta sono ancora bassi: il 60% dei pazienti non risponde o recidiva. Uno studio pubblicato di recente su Blood Advances, condotto presso Ia Fondazione IRCCS Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei Tumori di Milano (INT), ha evidenziato che il fallimento della terapia potrebbe dipendere dalla presenza di specifici monociti presenti nel sangue del paziente con linfoma a grandi cellule B al momento della linfocitoaferesi.

 

Le cellule CAR-T

Le cellule CAR-T sono un’immunoterapia cellulare in cui i linfociti T del paziente vengono prelevati dal sangue periferico e successivamente modificati in laboratorio con l’aggiunta del recettore CAR per il riconoscimento di target tumorali specifici. In questo modo si creano linfociti T ingegnerizzati capaci di attaccare il tumore una volta infusi nuovamente nel paziente da cui sono stati prelevati. Questa procedura di separazione e raccolta delle cellule T dal sangue periferico viene detta linfocitoaferesi.

“Siamo partiti dal presupposto che la terapia con cellule CAR-T è molto efficace ma anche molto costosa, per cui considerando che oggi abbiamo anche altre opzioni per i pazienti affetti da linfoma a cellule B recidivato refrattario, ci è sembrato opportuno cercare dei marcatori di risposta che ci consentissero di individuare prima della fase di produzione delle CAR-T i pazienti che avrebbero potuto beneficiare della terapia, in modo non solo da evitare i costi di produzione ma anche per eventualmente indirizzare i pazienti verso altre terapie”,

ci spiega Cristiana Carniti, ricercatrice presso la divisione di ematologia dell’INT, tra gli autori dello studio.

 

Lo studio

Nello studio sono stati inclusi 95 pazienti affetti da linfoma a cellule B recidivato refrattario che erano già stati sottoposti a due precedenti linee di trattamento. “Ci siamo concentrati sullo studio del materiale che viene utilizzato per produrre le cellule CAR-T, la linfocitoaferesi”, continua Carniti.

“La nostra ipotesi originale era che ci fosse qualcosa a carico delle cellule T che determinasse la formazione di CAR-T più funzionali e propense ad uccidere il tumore rispetto ad altre che invece erano meno efficienti. Ci siamo però scontrati con il fatto che non sono le caratteristiche dei linfociti T a determinare la risposta quanto la presenza di specifici monociti, che tendono ad aggrapparsi ai linfociti T”.

“Ci siamo chiesti se questi monociti avessero un ruolo e abbiamo visto che i pazienti con linfoma a grandi cellule B che avevano una risposta più bassa al trattamento e una probabilità di sopravvivenza inferiore erano quelli con un numero più alto di monociti al momento della linfocitoaferesi, prima che le CAR-T venissero prodotte”.

A questo punto i ricercatori hanno valutato i profili di espressione genica nelle cellule ottenute attraverso la linfocitoaferesi e hanno individuato 4 geni altamente espressi nei monociti ma non nelle cellule T, che identifica i pazienti più frequentemente refrattari alla terapia con cellule CAR-T.

“Pensiamo ci sia un arricchimento di monociti in generale, ma soprattutto di monociti che esprimono questi 4 geni nei pazienti che non risponderanno bene al trattamento. Per cui identificarne la presenza nel sangue periferico può aiutarci a individuare precocemente i pazienti che non risponderanno alla terapia con cellule CAR-T”, ci spiega la dottoressa. “Inoltre, poiché nel nostro studio abbiamo individuato una forte espressione di proteine infiammatorie associate alla presenza dei monociti, pensiamo che al momento della linfocitoaferesi dovrebbero essere presi in considerazione anche i livelli di queste proteine”.

 

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Lo studio, pubblicato su Blood Advances, è disponibile a questo link
https://doi.org/10.1182/bloodadvances.2024012563