Le misure di isolamento della prima fase di emergenza da COVID-19 hanno avuto effetti positivi sulla diffusione della malattia. In particolare nelle regioni del centro e del sud Italia. Ma effetti negativi ci sono stati per la diagnosi di altre malattie, come quelle ematologiche. È questa l’intuizione di un gruppo di ricercatori italiani che ha pubblicato sul British Journal of Haematology l’analisi di alcuni casi di leucemia diagnosticati in ritardo.
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“Accanto a una netta diminuzione delle visite ambulatoriali abbiamo notato un forte aumento degli accessi urgenti al pronto soccorso, non solo per emergenze legati al virus SARS-CoV-2″, spiega Paolo De Fabritiis, direttore dell’unità di ematologia dell’Ospedale S. Eugenio di Roma, tra gli autori della pubblicazione.

Se durante la prima fase dell’emergenza per i pazienti già in cura l’assistenza ha dovuto adattarsi in fretta alle misure di gestione straordinarie, per le prime visite e le nuove diagnosi ci sono state diverse difficoltà.

“La nostra esperienza indica che alcuni sintomi diversi da febbre e insufficienze respiratorie sono stati sottostimati. Così come molti esami radiologici e ematologici sono stati rimandati, portando a un ritardo nelle diagnosi”, continua De Fabritiis.

La pubblicazione prende in considerazione otto casi di iperleucocitosi – elevato numero di globuli bianchi – osservati tra marzo e aprile. I pazienti sono risultati tutti negativi al tampone per il nuovo coronavirus, ma avevano sintomi vari anche gravi: da febbre e difficoltà respiratorie a insufficienza renale. In tutti era presente anemia e mancanza di energia. I ricercatori hanno verificato che i malati hanno aspettato da 21 a 45 giorni prima di andare in pronto soccorso, dopo la comparsa dei primi sintomi.

“Gli individui psicologicamente o socialmente più fragili potrebbero aver esasperato le misure di isolamento. L’ansia per il COVID-19 poi ha prevalso e in alcuni casi ha impedito di prendere in considerazione altre malattie”, aggiunge il direttore.

“Nel caso delle leucemie acute la diagnosi e l’inizio delle terapie devono avvenire il prima possibile, perché queste malattie tendono a peggiorare rapidamente sviluppando disturbi anche gravi contemporaneamente, come si vede anche dalle situazioni delle otto persone che abbiamo analizzato”.

Ai pazienti presi in considerazione nella pubblicazione sono stati diagnosticati la leucemia mieloide acuta (LAM) in tre casi; la leucemia mieloide cronica (LMC) in due; la leucemia linfoblastica acuta (ALL) in un altro e un linfoma delle cellule mantellari in fase leucemica nell’ultimo. Uno dei pazienti è morto tre giorni dopo l’arrivo in ospedale.

“Per capire se la nostra esperienza è comune anche a altri ospedali, stiamo avviando un nuovo studio insieme al GIMEMA – racconta De Fabritiis. Stiamo preparando una indagine che coinvolgerà diversi centri ematologici e servirà ad analizzare i tre mesi dell’emergenza – in termini di diagnosi, prognosi e risultati delle terapie – confrontandoli con i tre mesi precedenti a marzo 2020 e con i tre mesi successivi alla fase 1”.

I risultati saranno utilizzati per capire cosa non ha funzionato durante l’emergenza e cosa, soprattutto in vista di una eventuale seconda ondata di contagi, dovrà necessariamente essere migliorato. “Per i pazienti ematologici essere visitati in breve tempo è urgente quanto per un paziente con un forte sospetto di infezione da SARS-CoV-2. Sarà necessario quindi rafforzare l’assistenza territoriale e predisporre visite anche a domicilio di medici in grado di fare screening di primo livello in pazienti con sintomi”.

 

Immagine di copertina di Belova59 da Pixabay 

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