I dati confermano l’efficacia della terapia testata nel trial D-ALBA (LAL 2116), basata sull’impiego di due farmaci che agiscono in modo combinato e mirato, e le potenzialità per il trattamento dei pazienti senza necessità di chemioterapia sistemica e trapianto, evitandone dunque anche i pesanti effetti collaterali. I risultati a lungo termine dello studio GIMEMA, incentrato sul trattamento della leucemia acuta linfoblastica Ph+ dell’adulto di tutte le età, sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology.

Per moltissimi tumori, la chemioterapia sistemica è un trattamento necessario e fondamentale. Per alcune neoplasie ematologiche, invece, già oggi può essere evitata e sostituita da terapie mirate che combinano maggiore efficacia con minori effetti collaterali. A questo scenario si aggiunge anche la leucemia linfoblastica acuta Philadelphia positiva (LAL Ph+), una forma tumorale che interessa i precursori dei linfociti B. La LAL Ph+ è caratterizzata dalla presenza di una proteina di fusione, derivata dall’unione di due cromosomi diversi: la “nuova” proteina è un enzima della famiglia delle tirosin chinasi che, attivata in modo anomalo e incontrollato, porta alla progressione tumorale.

Se la LAL è il tumore più frequente in età pediatrica, la “variante” Ph+ è rarissima nei bambini ma nell’età adulta è il sottogruppo più frequente, e può interessare un caso su due sopra i 50 anni, quando gli effetti collaterali della chemioterapia possono essere particolarmente impegnativi e il trapianto di cellule staminali più difficile; è anche per questa ragione che le nuove prospettive di trattamento “chemio-free” risultano così importanti. E, come suggeriscono i risultati dell’ultimo studio clinico GIMEMA LAL2116, di grande efficacia per pazienti di tutte le età.

Una terapia mirata

I primi risultati sono stati pubblicati nel 2020 e mostravano come l’uso congiunto di due farmaci riuscisse a portare a una remissione completa della leucemia nel 98% dei pazienti trattati, senza effetti collaterali rilevanti e senza dover ricorrere alla chemioterapia sistemica. Il primo farmaco è un inibitore delle tirosin-chinasi, il dasatinib, che viene somministrato per via orale non appena si ha la conferma della diagnosi nella cosiddetta fase d’induzione. Il secondo, somministrato in una seconda fase per il consolidamento della risposta ottenuta, è il blinatumomab. Si tratta di un anticorpo monoclonale bispecifico, in grado cioè di riconoscere due antigeni: uno sulle cellule tumorali, che possono così essere riconosciute e attaccate dal sistema immunitario, e uno sui linfociti T, un altro tipo di cellule del sistema immunitario, che sono attivati contro il tumore.

“L’uso di inibitori delle tirosin-chinasi ha rappresentato una rivoluzione nel trattamento della malattia, che prima della loro introduzione rappresentava la neoplasia ematologica a prognosi più infausta. Il protocollo che stiamo impiegando oggi, con l’aggiunta dell’anticorpo, rende la terapia per la leucemia linfoblastica acuta Ph+ ancora più mirata ed efficace”, spiega Robin Foà, professore emerito all’Università Sapienza di Roma.

Foà ha iniziato a studiare gli inibitori delle tirosin-chinasi in induzione, senza chemioterapia, oltre vent’anni fa:

“Questo lungo percorso ci sta mostrando il valore del trattamento combinato, che oltretutto può essere somministrato in larga parte a domicilio, tanto che il trial clinico è potuto proseguire anche durante il lockdown causato da COVID-19”.

I dati dal follow-up

L’articolo appena pubblicato sul Journal of Clinical Oncology riporta i dati di follow-up a oltre quattro anni (53 mesi) dall’apertura dello studio, confermandone l’efficacia: “Uno dei parametri più importanti è la risposta molecolare, cioè la presenza o meno di materiale genetico correlato alla leucemia. Questa combinazione di farmaci determina infatti una risposta molecolare profonda e precoce, e questa a sua volta si associa ad una prognosi più favorevole. Il trattamento con l’anticorpo blinatumomab si è dimostrato in grado di prevenire le ricadute anche in pazienti con risposta molecolare sub-ottimale alla terapia di induzione”, spiega Sabina Chiaretti, professoressa associata all’Università Sapienza di Roma. “Guardando poi più nel dettaglio i risultati dello studio, dei 63 pazienti arruolati, il 50% è stato trattato solo con l’inibitore e l’anticorpo senza dover ricorrere né a chemioterapia sistemica né al trapianto di cellule staminali ematopoietiche, un’opzione terapeutica che pone diversi rischi dovuti alle complicanze legate alla procedura trapiantologica (maggiori nei pazienti meno giovani) e alla cosiddetta malattia da trapianto. Va altresì sottolineato come, nei pazienti che sono stati sottoposti a trapianto, soprattutto per persistenza della malattia a livello molecolare, il tasso di mortalità legato alla procedura sia stato inferiore rispetto ad altre sperimentazioni cliniche. Verosimilmente perché non vi è stata la tossicità della chemioterapia, per cui non hanno presentato complicazioni infettivologiche che possono condizionare negativamente il trapianto”, continua Chiaretti.

“I risultati, i migliori a oggi ottenuti, si sono quindi mantenuti nel tempo e, soprattutto, a prescindere dall’età dei pazienti. A dimostrazione del fatto che questa strategia terapeutica, basata su una terapia mirata verso l’alterazione genetica caratteristica della leucemia linfoblastica acuta Ph+ in associazione a un’immunoterapia, rappresenta davvero il futuro per questo sottogruppo di leucemie, e che la chemioterapia e il trapianto potranno essere evitati in moltissimi casi”, concordano in conclusione Foà e Chiaretti.

I due ricercatori stanno già conducendo un ulteriore studio basato sullo stesso principio terapeutico, ma che sfrutta un diverso tipo di inibitore delle tirosin chinasi.